Importante figura del panorama letterario contemporaneo, Fleur Jaeggy, scrittrice svizzera di madrelingua italiana, è nata a Zurigo, classe 1940. Dopo aver trascorso gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza in vari collegi svizzeri, negli anni sessanta si trasferisce a Roma. Qui diventa intima amica della scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann.
Dal 1968 vive a Milano, ed inizia la sua collaborazione con la casa editrice Adelphi. Il successo arriva con "I beati anni del castigo", premio Bagutta 1990. All'attività di narratrice affianca quella di traduttrice e saggista.
Ha scritto inoltre per il teatro: Un tram che si chiama Tallulah presentato nel 1975 al Festival dei Due Mondi di Spoleto (per la regia di Giorgio Marini) e nel 1984 a Lugano al Teatro La Maschera, per la regia di Alberto Canetta.
La scrittrice ha collaborato, nel corso degli anni, più volte con Franco Battiato alla stesura di alcuni testi, usando spesso lo pseudonimo di Carlotta Wieck.
Altre opere edizioni Adelphi:
"Il dito in bocca", "L'angelo custode", "La paura del cielo", "Proleterka", "Sono il fratello di XX", Vite congetterali".
Una figura che ha catturato, quindi, la mia attenzione per la sua natura poliedrica.
"Le statue d'acqua" di Fleur Jaeggy, dedicato a Ingeborg, come si legge in epigrafe, è lo stile della scrittrice, un concentrato di bellezza narrativa, le sue parole, i suoi scritti in generale, abbracciano quella che può essere definita "alta letteratura", nella quale ben vengono messi in evidenza i virtuosismi che la parola scritta riesce a compiere.
La Jaeggy riesce in questo intento magistralmente, assegna alla parola un ruolo "claustrofobico", essa si rinchiude, non implode mai in vitalità, eppure ferma nella sua immobilità, riesce a penetrare attraverso gli occhi di chi la legge, le parole vivono qui una vita selvatica e asociale, come gli esseri di cui raccontano.
"Le statue d'acqua" ha il passo ritmato di una scena teatrale che si svolge sotto i nostri occhi, spazio dove non solo la parola (scritta e/o parlata) ha la sua valenza, ma anche il silenzio diviene rilevante presenza.
La storia è incentrata su Beeklam, un uomo che vive solitario in un sotterraneo di Amsterdam, circondato da statue, che si allontana dalla casa paterna condividendo la sua solitudine con il suo domestico, Victor. Si alternano, tra le righe, voci ed emozioni: c'è Beecklam il protagonista, il suo domestico Victor, il padre di Beeklam, Reginald e in qualche modo, anche le statue, perchè il suo protagonista riesce a sentirle e a personificarle. L'ambientazione alquanto tetra, ben si collega al tema centrale del libro che è il dolore per la perdita della madre Thelma, un dolore però non enfatizzato, non calcato, ma come un'eco ammanta di mistero l'intera narrazione, è velato, sottile eppure percettibile...come granelli di polvere che coprono inesorabilmente le cose e si stratificano nel tempo.
La caratterizzazione dei personaggi passa, in questo libro, attraverso la descrizione dei profili caratteriali, più che di quelli fisici, e quindi delle emozioni che essi provano. L'elemento dell'acqua domina ogni sensazione, essa è atarassica dinanzi alle vicende dei protagonisti ed è in questo elemento che il protagonista, Beeklam, ha deciso di "vivere da annegato". Oltre al tema del dolore vi è quello della solitudine, quello del ricordo, quello della morte e dunque della fugacità della vita e del tempo, che vorrei sottolineare con una frase del poeta Edward Young "la notte, cupa dea del trono d'ebano, nella sua maestà senza raggi, ora protende sopra un mondo assopito il suo scettro di piombo.".
Accanto ai personaggi, troviamo la presenza di figure quasi irreali, magari immaginate dal nostro protagonista, spettri, uccelli di palude, sguardi vitrei e passanti inopportuni.
"Amsterdam è la mia città dove l'acqua continua a scorrere senza una vera fine [...].
Nei sotterranei ho passato molto tempo, non era stanchezza del sole, del plen air, perdevo soltanto il controllo delle ore e della vita, se così posso esprimermi; rinunciavo a quelle rigide definizioni della vita quotidiana che permettono di assecondare il calore [...]. Tra vanghe, trofei schegge di marmo scartato, stanno i convitati di argilla che tessono lacci di sonno come se fossero trine di Malines, veleggiano sulle pareti, saltano come caucciù sugli scalini di polvere, salgono verso l'alto, verso la luce, salgono invano, senza arrivare a nulla, neppure alla beatitudine o all'esaurimento della disperazione. E io, come nelle fiabe, ritornai su, carico di anni."
Riporto una delle innumerevoli gemme letterarie che mi hanno profondamente colpito e fatto entrare nell'essenza dell'autrice, un'essenza profonda, aulica, malinconica dove l'esperienza del dolore, in questo libro in particolar, è raccontata come un dolore fluido, in attesa, probabilmente, di evaporare verso una luminosa rinascita lasciandosi dietro gli arresti di vita.
"Dove nascondeva quella notte
lo spirito del mondo
la sua riserva di sognatori?"
Tutto è marcescente e posto sotto la luce della decomposizione, si è sempre sul bordo dell'attesa di una rivelazione che sembra in apparenza tradita, ma che invece trova risposta e soddisfazione soltanto in noi stessi.
Intenso capolavoro letterario.

Edward Young è stato un poeta britannico di quella che possiamo definire poesia cimiteriale, genere poetico nato in ambito anglosassone, nel XVIII secolo caratterizzato da una spiccata sensibilità dei suoi esponenti per le tematiche della morte, del sonno e della notte e, in generale, per tutto ciò che è macabro e per la caducità dell'esistenza (un esempio italiano potrebbe essere Ugo Foscolo, ricordando altri autori famosi, invece, possiamo citare Edgar Allan Poe, Lovecraft, Gray ed altri).

"Mettimi in controluce
Vedrai poesie.
Attraversami nel buio
Vedrai la luce. "
- Edward Young
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