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Un olmo centenario con le sue radici tenaci, "questo grande albero dal sonno insonne, questo generoso fracassone dall'odore povero credeva nella gioia di darsi, come fa il frutto che cade, felice com'è di farlo, perchè solo ciò che non si dà muore", una città che cade in rovina per via delle continue frane, paesaggi tetri, luoghi ameni, personaggi ambigui e misteriosi, al limite della follia.
"Cade la terra" di Carmen Pellegrino, Giunti editore, è un libro particolare, il primo romanzo della scrittrice, mi ha stregato e affascinato fino al punto di non voler ultimarne la lettura. Volevo durasse altre mille pagine ancora...
Inquietante e poetico al contempo, lo stile della Pellegrino ha una magia unica: riesce a rapire il lettore e trasportarlo in un'atmosfera ben precisa, a tratti lugubre, a volte colma di speranza, a volte infine foriera di desolazione.
La persistenza delle memoria aleggia chiaramente sulle rovine e sugli abitanti di Alento, un paesino povero e isolato, inventato dalla scrittrice, ma che trae ispirazione dalla realtà (lo lascio scoprire a voi).
Vi innamorerete di Estella e degli altri personaggi che danno vita alla storia, e dei paesaggi che vi sono descritti nei minimi particolari, quasi a poterli sfiorare con un dito, ascoltarne i rumori.
Emily Dickinson scriveva: "Una parola è morta quando vien detta, dicono alcuni. Io dico che comincia a vivere soltanto allora", quindi se è vero che le cose prendono vita soltanto se le si nominano, Carmen Pellegrino riesce a far rinascere Alento e i suoi abitanti, le pietre e così pure gli spiriti.
La disgregazione del paese si accompagna, quasi come fosse una metafora, alla dissipazione di memorie e tradizioni locali, abitudini, e così all'abbandono di chi vi abita.
In "Cade la terra" l'abbandonologia si fa arte, si fa genere letterario specifico, stile di vita, condizione dell'anima.
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C'è molta malinconia in queste pagine, un sottofondo musicale che accompagna l'intero romanzo, come soltanto le cose e i sentimenti diroccati sanno esprimere, si avverte distintamente, di quella malinconia fatta di attese, presagi che sai saranno nefasti, senza possibilità di riuscita alcuna. Quella malinconia come un'edera rampicante che si aggroviglia alle pareti del cuore, e non ti lascia scampo. Eppure, questa malinconia profonda, compie un incantesimo: ti squarcia dentro, viene a chiederti il conto, ti rende insonne e agitato, e infine ti salva:
"La salvezza provvisoria - la salvezza tipica degli scampati, quella salvezza fragile dei sopravvissuti - sento che può appartenermi, come le case abbandonate d'intorno che sembrano rovinarmi addosso, tutte malconce, tutte rotte: assomigliano alle mie ferite, a questo reticolo di crepe. Dovrei preoccuparmene forse, le vedo rompere ancora più spaventose delle crepe delle case che ho intorno. E invece no, traggo forza da esse, vi ho posto varchi per l'aria e per la luce. Sono qualcosa. Sono mie. Come una possibilità".
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Non credo ci siano parole tanto belle, nè tanto capienti nè precise, che siano in grado di descrivere questo libro incantevole: è una vera e propria esperienza di vita, capace di modificare la consapevolezza di chi ne legge le pagine e le attraversa nel profondo, senza ritrosia, cercando di afferrare il senso dei luoghi, il significato che essi hanno, le emozioni che ci lasciano in eredità, le parole non dette, gli abbracci mancati, gli odori di certe stanze, la caducità della vita che è come un richiamo continuo che assilla e che però mette in guardia, permette di scrutare ciò che conta, quel che resta. quando tutto inesorabilmente va e scompare.
Carmen Pellegrino ci dona parole, parole come polvere che ti si appiccicano addosso e non vanno più via, sedimentate per sempre dentro, fin nelle ossa, fin nelle crepe della terra.
Per poi rifiorire.
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