"Il fatto è che siamo viandanti nell'oscurità, ogni vita è qualcosa che non si potrà mai afferrare del tutto. Ho giudicato mia madre impietosamente, ma con quale diritto?"
Cloe è una donna che ha imparato a parlare con le ombre. Un’anima in ascolto, alla ricerca di una voce che la riporti al luogo della sua origine, al trauma antico di quando, bambina, cercava di farsi amare da chi l’aveva messa al mondo.
Viene tolta dal nucleo familiare e portata sulla Collina, alla Casa dei bambini timidi, gestita dal Generale e da Madame che vogliono "allunare" i bambini da loro amorevolmente accolti.
“Sono nata in una casa infestata dai fantasmi. Allampanati, tignosi fantasmi da cui non si poteva fuggire. A quel tempo vivevamo nella parte ovest di un villaggio che aveva case tutte uguali, tutte al pianoterra, prima che si elevassero. Mio fratello e io speravamo che le case degli altri fossero infestate quanto la nostra. A dieci anni fui allontanata dal villaggio per pura crudeltà, ma i fantasmi non rimasero a casa.”
Una nube di solitudine avvolge Cloe fino ad avvelenarle l'animo e a costringerla a rintanarsi in un mondo, psicologico, tutto suo. Ha in dote un passato fatto di ferite e abbandoni, un passato che le impedisce di evolvere, di spiccare il volo.
Questa è una storia di solitudini che s'intrecciano e cercano di riconoscersi l'un l'altra.
Cloe vive in questa casa di accoglienza fino ai 18 anni finché incontra il Professor T. anche lui immerso nel mare della solitudine, ma cerca di andare oltre e mostrare a Cloe che pure "il luogo oscuro" dentro di noi ha il suo lato salvifico. Cloe imparerà, grazie a lui, a guardare dentro la sua ferita.
Carmen Pellegrino, dopo "Cade la terra" e "Se mi tornassi questa sera accanto", ritorna con un romanzo che è sempre ammantato di quel velo antico che ci rivela la persistenza delle cose, ma a mio avviso, "La felicità degli altri" ha tutte le caratteristiche di una scrittura sperimentale, da un punto di vista della tecnica narrativa, che ho trovato geniale: utilizzo di termini specialistici resi letterari come "flocculazione del tempo" o la trasformazione di un dialogo in forma di tragedia greca, e poi riferimenti ai miti greci, a Esiodo, all'ebraismo, danno conferma della bravura di Carmen Pellegrino. (Da leggere, assolutamente, la note dell'autrice a fine libro, ricca di spunti letterari).
Le tematiche che ruotano intorno alla storia principale sono molteplici: i legami familiari, il rapporto madre-figlia, il sopravvivere ai sensi di colpa, il legame con la natura, l'identità, le maschere che indossiamo a mo' di corazza per non rivelare la nostra fragile essenza, la violenza sui bambini, la fede, il rapporto con i social network. Questi ed altri temi sono funzionali alla storia che ci viene narrata: ogni tanto emerge una pagina che ci fornisce un elemento di cronaca, ponte di collegamento con la narrazione e che mette il lettore nella condizione di porsi delle domande, di riflettere, così come fa riflettere l'intero racconto.
I luoghi abbandonati e così "l'atmosfera ombrosa" sono ben presenti anche in quest'ultimo libro perché sono la seconda pelle della scrittrice ed è l'elemento che più amo della sua scrittura, ma non aspettatevi le stesse sensazioni di "Cade la terra". La cosa innovativa che fa Pellegrino in questo romanzo è trasfigurare l'abbandonologia dai luoghi alle persone: ciò che nelle pagine non viene visto in termini di case abbandonate e di luoghi decrepiti è visto invece, nettamente, nell'animo dei personaggi "gli ammutoliti abitanti del buio". Le rovine si avviluppano alle donne e agli uomini di queste pagine, sono le stesse rovine che ogni essere umano si porta dentro.
Riuscirà Cloe a essere finalmente guardata e a sciogliere i nodi cruciali della sua vita?
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